Ricordando Peter: tu rivivi nei miei libri
“Renzo intende scrivere un libro sul nostro viaggio a Vienna per trovare qualcosa a cui avevamo diritto, ma che ci ha riserbato solo un rifiuto e un trauma inguaribile.” Helga Schneider
Sono passati due anni, e duole ancora come il primo giorno.
La notizia giunse all’improvviso e lì per lì pensai che fosse un errore. Ci eravamo sentiti poco tempo prima, e sembrava che tutto fosse a posto. Ma poi la terribile verità.
Mi hai lasciata desolata per non esserti potuta stare vicino quando più ne avevi bisogno. Non sapevo che tu stessi così male e da tanto tempo. I pochi contatti avuti con te nel corso degli anni sembravano confermare il contrario.
E’ stato papà a sostenerti, instancabilmente, finché un male irrimediabile lo costrinse ad arrendersi. Ma ti eri arreso anche tu!
Hai scelto l’alcool. L’ho saputo solo dopo la tua morte.Da un certo periodo in avanti mio fratello ed io siamo cresciuti l’uno lontano dall’altra, ma le atrocità della guerra, vissute insieme da bambini, hanno creato fra noi un legame indistruttibile, malgrado le grandi distanze che si sarebbero poi frapposte tra le nostre esistenze. Condividevamo una memoria preziosa: i tre anni trascorsi sul lago Atter insieme ai nonni paterni. Là ritrovammo il senso della vita, una forma estrema di felicità.
Ne parlavamo ogni volta che ci sentivamo al telefono. Oh, ho chiamato sempre io, per decenni, ma poi, vicini malgrado vivessimo in nazioni diverse, accarezzavamo quel ricordo, lo custodivamo come un bene caro, pregiato. Lo percorrevamo con sempre rinnovato appagamento come se per un momento avessimo potuto strapparlo al passato e trasferirlo nel presente. L’affetto e la dedizione dei nonni, la casa sul lago, e finalmente il cibo dopo la fame patita a Berlino durante la guerra e anche dopo. Il lungo pontile tutto per noi, la passione di Peter per la pesca, la mia per il nuoto e i tuffi. Le estati dorate, gli inverni freddi e ventosi – ma il lago sempre emozionante, fonte inesauribile di allegria e divertimento.
Non lo sapevo, Peter, nessuno me ne aveva mai accennato, nemmeno tua moglie. Non sapevo del tuo dramma, del tuo irriducibile conflitto, della tua anima ferita fin da bambino. Ma forse quella volta avrei dovuto intuire qualcosa.
Fu all’inizio del 1969. Avevo rotto i ponti con tutti voi da quattordici anni, tuttavia, poiché in Italia ero diventata madre, avevo sentito l’impulso di farvi conoscere mio figlio Renzo, sperando che ciò avrebbe sancito la pace fra noi. Così partii con mio marito e il bambino per Salisburgo.
Ma trovai la terza moglie di nostro padre fredda e insofferente, e molto innervosita, perché il piccolo era vivace e allungava le mani ovunque, specialmente su una lucida credenza in radica di noce dalla quale sembrava irresistibilmente attratto.
In papà invece avvertivo un senso di impalpabile risentimento, come se i duri scontri del passato fra me e la sua seconda moglie fossero avvenuti sempre e soltanto per colpa mia.
La sera del mio arrivo, Peter e sua moglie vennero a salutarmi.
Quando all’improvviso ebbi mio fratello davanti, fui colta da grande commozione. Somigliava molto a nostro padre: alto, snello, gli stessi capelli, folti e mossi. Gli stessi occhi, il naso identico.
Ma aveva un’aria distaccata e sbrigativa come se fosse venuto per un obbligo di presenza indispensabile. Indossava un Loden e non sembrava intenzionato a toglierlo. Feci un gesto per abbracciarlo, ma si girò per guardare il bambino che, carponi, ispezionava il tappeto a disegni vivaci. Allora lo sollevai e glielo porsi, ma si tirò indietro perché il piccolo scalciava, forse spaventato dal volto sconosciuto dello zio. Ci fu un momento di disagio tra tutti i presenti.
La moglie di mio fratello, Linde, era una giovane donna bionda dal viso armonioso e intelligente. Mi strinse la mano con un sorriso aperto. Ma subito dopo Peter si affrettò a dire: “Abbiamo una certa fretta, siamo invitati a cena da amici.” Entro dieci minuti erano fuori dalla porta.
Mi domandai, delusa e turbata, per quale motivo avessero accettato un impegno proprio il giorno del mio arrivo. Espressi quel dubbio a papà, ma lui rispose, vago ed evasivo: “Tuo fratello ha un carattere difficile, anch’io a volte non riesco a capirlo.” Mi nascose che Peter era alcolista.
Linde mi chiamò la mattina dopo, parlandomi con calore e sincerità. In quei giorni avevano saputo che non potevano avere figli, e mio fratello ne era rimasto sconvolto.
Le dure prove della guerra subite da bambino, la fame, le privazioni e i bombardamenti, avevano compromesso la capacità di procreare di Peter, privandolo della possibilità di essere genitore. Ma nemmeno lei accennò al problema di mio fratello.
Lo avrei saputo solo dopo la sua morte.Da un certo periodo in avanti mio fratello ed io siamo cresciuti l’uno lontano dall’altra, ma le atrocità della guerra, vissute insieme da bambini, hanno creato fra noi un legame indistruttibile, malgrado le grandi distanze che si sarebbero poi frapposte tra le nostre esistenze.
Condividevamo una memoria preziosa: i tre anni trascorsi sul lago insieme ai nonni paterni. Là ritrovammo il senso della vita, una forma estrema di felicità.
Ne parlavamo ogni volta che ci sentivamo al telefono. Oh, ho chiamato sempre io, per decenni, ma poi, vicini malgrado vivessimo in nazioni diverse, accarezzavamo quel ricordo, lo custodivamo come un bene caro, pregiato. Lo percorrevamo con sempre rinnovato appagamento come se per un momento avessimo potuto strapparlo al passato e trasferirlo nel presente. L’affetto e la dedizione dei nonni, la casa sul lago, e finalmente il cibo dopo la fame patita a Berlino durante la guerra e anche dopo. Il lungo pontile tutto per noi, la passione di Peter per la pesca, la mia per il nuoto e i tuffi. Le estati dorate, gli inverni freddi e ventosi – ma il lago sempre emozionante, fonte inesauribile di allegria e divertimento.
La covavi nell’anima, Peter, questa grossa spina, fin da quando, una grigia sera a Berlino, lei se ne era andata malgrado nostro padre fosse già al fronte. Avevi diciannove mesi.
Ricordo la tua furia cieca quando, svegliandoti nel lettino, non la trovasti. Una furia sfrenata. Avvertivi d’istinto che fosse accaduto qualcosa di irreparabile e te la prendevi con me. Come se fosse successo a causa mia. Ma ero stata costretta a lasciarla andare, la mamma, perché avevo solo quattro anni.
Quando infine la matrigna entrò nella nostra vita, tu l’hai accolta con ignaro entusiasmo. Ti sentivi appacificato e al sicuro.
Ma l’abbandono della propria madre causa sempre un trauma e lascia una lesione nella psiche, un punto vulnerabile. Anche se apparentemente può rimanere assopito per molto tempo.
C’é qualcosa che fa ancora tremendamente male nel guardare questa foto, l’ultima volta che ci siamo visti ad Attersee in Austria. Nemmeno allora volevi parlare di nostra madre e ancora mi rimproveravi per averla voluta cercare…
Ma io volevo trovarla, ad ogni costo, constatare com’era fatta. Il suo viso, le sue giustificazioni. Tu non volevi, ti eri arrabbiato. Non volevi rischiare il dolore, la delusione. Io invece ho rischiato e sono andata a Vienna con mio figlio Renzo. E sono rimasta scottata. Ecco la non-nonna e la non-madre. E un bambino in terra di nessuno.
Durante la notte in albergo ho fotografato mio figlio. E ho pensato: nè tu hai trovato una nonna nè io una madre. La mattina dopo siamo ritornati a Bologna.
Non so perché la vita sia fatta così: anche Renzo e io ci siamo lasciati soli. Certe storture della vita non guariscono mai.Di quel giorno ci è rimasto nel ricordo la riva del “Bel Danubio Blu…” O forse no… Renzo intende scrivere un libro sul “nostro viaggio a Vienna per trovare qualcosa a cui avevamo diritto, ma che ci ha riserbato solo un rifiuto e un trauma inguaribile.”
via abcloud.org
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